Quando sport e salute diventano la vetrina delle imprese

Partnership e sponsorship tra aziende e mondo dello sport sono spesso un'occasione per associare l’attività fisica e i suoi valori al prodotto da vendere. A volte è un meccanismo che serve a imbellettare o nascondere proprietà che con la salute hanno poco a che fare. Le imprese giocano un ruolo nello sviluppo di una società e di un ambiente più salutari: gli accordi pubblico-privato sono possibili se trasparenti, se incentivano l’esercizio fisico, se non compromettono la credibilità delle istituzioni.
11/12/2014
  • Stefano Menna
partnership pubblico-privato

È di pochi giorni fa la notizia della lettera aperta inviata al presidente della Federazione automobilistica internazionale, l’ex ferrarista Jean Todt, con cui Mariann Skar - segretario generale della European Alcohol Policy Alliance (Eurocare) - chiede ufficialmente al circus della Formula Uno di rinunciare alle sponsorizzazioni da parte delle aziende che producono bevande alcoliche. Si invoca una misura analoga al tobacco ban del 2005-2006, ultima stagione in cui le monoposto hanno potuto sfoggiare sulle livree nomi e loghi di sigarette prima che la pubblicità delle “bionde” venisse messa al bando. Una richiesta non banale per un settore ancora molto ricco, ma che sta conoscendo una contrazione dei ricavi da allarme rosso (-41% nel periodo 2008-2011, secondo gli ultimi dati disponibili) a causa del calo della pubblicità. Una diminuzione strutturale, in parte dovuta proprio al taglio delle sponsorship con le multinazionali del tabacco, capaci fino a qualche anno fa di garantire ai team introiti milionari.

Se il marketing forza la mano: un caso di scuola
La lettera di Eurocare (57 enti di sanità pubblica di 25 Paesi europei, alleati per la prevenzione dei problemi alcol correlati) sottolinea come la sponsorizzazione di eventi sportivi dal grande impatto mediatico - sono 500 milioni, in media, i telespettatori dei gran premi - sia un potente strumento utilizzato dall’industria degli alcolici per sostenere le vendite dei propri prodotti. Non è pubblicità tradizionale, ma una più raffinata strategia di marketing. Un tentativo di generare un collegamento positivo tra lo sport, l’attività fisica, i suoi valori (benessere e salute compresi) e il prodotto da piazzare sul mercato. Si tratta di un processo conosciuto come brand transfer, o “trasferimento di immagine”: le imprese associano la loro immagine a quella di persone, testimonial, organizzazioni, istituzioni o eventi considerati dal pubblico-target come positivi, in modo da “trasferire” un po’ di questa stessa positività ai propri prodotti. In barba, in questo caso, alla direttiva europea 2010/13/Eu che stabilisce come le attività di marketing finalizzate al consumo di alcol non debbano essere in alcun modo legate alla guida. Né si può dire in questo caso che l’obiettivo sia far passare il messaggio del “guidare responsabilmente”… sulla cui efficacia, peraltro, non mancano recenti critiche e polemiche.

Il (ricco) palcoscenico dello sport
Quello della Formula Uno è solo l’ultimo caso del complesso rapporto tra mercato, salute, sport, istituzioni e autorità regolatorie. È chiaro che lo stretto legame tra attività fisica, benessere e salute ha reso lo sport un settore molto ambito per gli investimenti (pubblici e privati), siano essi sotto forma di finanziamenti diretti, pubblicità o partnership. Come però sottolinea una recente analisi ripresa dal British Medical Journal, simili investimenti sono benvenuti se contribuiscono ad aumentare il consumo di cibi e bevande sane, o promuovere le occasioni per fare esercizio fisico. Il problema è che invece la vetrina dello sport viene spesso utilizzata dai privati come il “cavallo vincente” per sostenere o rilanciare il proprio business, meglio se in una chiave socialmente più presentabile.

Basti pensare a quanto è successo con le Olimpiadi di Londra nel 2012 o con i Mondiali di calcio in Brasile la scorsa estate, dove grandi multinazionali hanno potuto godere non solo di estrema visibilità su un palcoscenico di miliardi di spettatori, ma anche di specifiche intese con le autorità politiche per la defiscalizzazione di alcuni prodotti. «È proprio in occasione di eventi come questi che prevalgono accordi pubblicitari e sponsorship con aziende che vendono cibo spazzatura, soft drink, alcol o sigarette. E i rischi per la salute vengono oscurati e minimizzati dall’associazione tra i prodotti e i valori positivi di sport e benessere che questi grandi eventi di per sé veicolano», spiegano gli autori del contributo. Se non addirittura sacrificati sull’altare degli interessi economici, come nel caso delle manifestazioni sportive ormai frequentemente organizzate nei Paesi dei mercati emergenti (Qatar, Russia, India, Cina, Brasile ecc), dove limiti e restrizioni per la tutela della salute sono molto più blandi.

Una storia particolare: integratori e sport drink
A volte, invece, il fenomeno è meno macroscopico. È il caso dell’industria degli integratori alimentari, dei soft ed energy drink, che sempre più spesso patrocina eventi o sponsorizza club sportivi. Non è un caso che oggi molti marchi del settore siano presenti proprio in Formula Uno, dove hanno sostituito come main sponsor le multinazionali del tabacco. Eppure, anche qui, non mancano i rischi per la salute. Un’indagine condotta dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) lo scorso anno aveva già lanciato l’allarme sui rischi legati al consumo e al loro utilizzo improprio, in particolare tra i più giovani. Per raggiungere più facilmente i risultati desiderati, molte volte se ne fa un uso smodato: una sorta di dipendenza, che fa rima con “doping mascherato”. Non solo: la comunità scientifica ha espresso dubbi anche sulla reale efficacia di bevande vitaminiche o barrette energetiche, nonché sui rischi legati allo sviluppo di sovrappeso e obesità in caso di consumi eccessivi.

La domanda se siano “etiche” le intese tra le aziende che producono integratori e le società sportive o le istituzioni, si basa sulla potenziale incongruenza tra la natura di questi prodotti (la loro efficacia reale, la loro sicurezza ecc) e i valori sportivi (tra cui la salute e il benessere) cui le strategie di marketing e pubblicità li associano. Nonché sulla legittimazione che gli accordi stessi di sponsorizzazione conferiscono ai prodotti pubblicizzati.

Quale spazio di manovra?
È qui, dunque, che entra in gioco la responsabilità di chi questi accordi li promuove o li stipula. La via è stretta, perché i conflitti di interessi o le azioni di “whitewashing” (magari mascherate sotto forma di responsabilità sociale di impresa) sono dietro l’angolo. Che le imprese giochino un ruolo chiave nello sviluppo di una società e di un ambiente più sano (e anche favorevole allo sport e all’attività fisica) viene ribadito in diversi documenti internazionali. È il caso della “Global strategy on diet, phisycal activity and health” (2002), della Carta contro l’obesità (2006) e della dichiarazione congiunta da parte dei governi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, per l’attuazione di strategie nazionali contro le malattie croniche (2011). E, last but not least, la Carta di Toronto (2010) che aiuta a delimitare il perimetro entro il quale è possibile trovare un accordo, tra il settore pubblico e quello privato, e sostenere un processo condiviso di promozione della salute.

Esiste quindi una sorta di mandato ufficiale per le istituzioni pubbliche, una legittimazione politica a cercare e stipulare alleanze. Come ha più volte spiegato Francesca Racioppi (Organizzazione mondiale della sanità - Oms), «il problema è che spesso le azioni dei privati sono parziali, tendono a fermarsi al livello dell’educazione e dell’informazione al consumatore. Quando invece servirebbero interventi più strutturali su prodotti e servizi». Del resto, gli interessi economici in ballo sono enormi: c’è una tensione dialettica tra il settore pubblico che tende a “normare” e dettare le regole, e quello privato che tende invece a preferire un’azione su base volontaria, non costretta dalle autorità regolatorie. Ma sulla cui efficacia o impatto reale sussiste più di un dubbio.

Tutelare la credibilità
«L’importante è proteggere l’autorevolezza e la reputazione dei partner, condividere e valorizzare le risorse reciproche, adottare una comunicazione chiara e trasparente, esplicitando sempre tutti gli interessi in gioco», continua Racioppi. Così come stabilire criteri guida, per esempio decidendo che alcune partnership non sono ammissibili per principio, come ha fatto l’Oms con Big Tobacco. Oppure stringere accordi con le organizzazioni di categoria e di settore, in modo da evitare l’endorsement di qualche azienda specifica o la discriminazione di altre.

Si tratta comunque di principi e linee guida che devono sempre fare i conti con i casi particolari, spesso complessi e articolati. Così come con l’opinione e le scelte consapevoli di cittadini e consumatori. Anche perché, se in quello sportivo esiste una tradizione ormai quasi secolare, in ambito sanitario la storia delle sponsorizzazioni è molto più recente. Un ambito in cui ci sono valori etici e scientifici fondamentali da salvaguardare, per garantire la credibilità delle istituzioni.

 

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