Detenuti o migranti, l’importante è includere

L’attività fisica può aiutare chi vive situazioni di disagio: dal recupero dei carcerati a progetti interculturali.
21/10/2014
  • Debora Serra
sport e inclusione sociale

Immagine: 

credit: Urbanpost

Quanto vale il campionato di serie C di rugby? Molto, se sei uno dei 25 detenuti della casa circondariale di Frosinone che compone la squadra dei Bisonti e ti alleni tre volte a settimana per conquistare il primo posto in classifica. Un progetto ambizioso che, facendo leva sullo sport, punta al recupero dell’autostima dei carcerati e alla creazione di un ponte con l’ambiente esterno per favorire il percorso di reinserimento in società.

Tra campo e palcoscenico, il protagonista è lo sport
Quanto realizzato nel basso Lazio non è un’eccezione, ma uno dei tanti esempi in cui sport e movimento fanno rima con integrazione, recupero e solidarietà. Un’esperienza analoga, per esempio, la propone la Uisp (Unione italiana sport per tutti) con il progetto triennale “Terzo tempo” che si concluderà a settembre 2015. L’iniziativa, rivolta a 2 mila minori a rischio e circa 800 detenuti, oltre a favorire una regolare attività fisica in carcere, mira alla creazione delle infrastrutture e degli spazi necessari per mantenersi in forma e seguire il programma di riabilitazione. Anche il Coni, lo scorso anno, ha presentato “Sport in carcere”: l’esercizio fisico per migliorare la condizione carceraria e il trattamento dei detenuti. Dopo una prima fase pilota nella casa circondariale di Bologna e nel penitenziario romano di Rebibbia, poche settimane fa la sezione abruzzese del Coni ha attivato a Chieti corsi di calcio a 5 e ginnastica per gli uomini, pallavolo e corpo libero per le donne.

È basato sull’attività fisica anche uno spettacolo messo in scena nel 2012 nel teatro del carcere di massima sicurezza milanese di Opera, nell’ambito della programmazione dei laboratori di “Leggere Libera-mente” a cura dell’Associazione Cisproject. L’evento, ispirato al libro “Se no, che gente saremmo?” di Gianfelice Facchetti (figlio di Giacinto, terzino e bandiera della Nazionale di calcio negli anni ’60 e ’70, scomparso nel 2006), ha voluto sottolineare l’importanza di giocare, resistere e non arrendersi mai.

La salute dietro le sbarre
Secondo il rapporto Prisons and Health pubblicato quest’anno dall’Oms, sono 6 milioni le persone che ogni anno vivono nelle carceri di tutta Europa. Persone costrette a vivere in istituti di pena nella maggior parte dei casi sovraffollati e insalubri, dove malattie come Aids, epatiti e tubercolosi sono più diffuse che nella popolazione generale e in cui si osserva un’elevata incidenza di patologie croniche e disturbi psichici.

Nel nostro Paese, nel 2012 l’Azienda regionale sanitaria della Toscana ha condotto un’indagine sullo stato di salute dei detenuti a cui hanno aderito oltre 3 mila carcerati: quasi tutti uomini, l’84% di età compresa tra i 18 e 49 anni, stranieri per oltre la metà. I numeri dicono che il 72% dei detenuti è affetto da almeno una malattia e che nel 41% dei casi si tratta di un disturbo mentale (contro il 12% che si riscontra nella popolazione generale). Un dato che trova conferma nell’elevato numero di suicidi registrato dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nel 2012: in tutta Italia ci sono stati 56 decessi per suicidio, su un totale di 153 morti in prigione.

Sport e inclusione sociale: il caso dei migranti
L’attività fisica rivolta a categorie particolari come i detenuti o i rifugiati rientra in un grande programma organizzato dalle Nazioni Unite (“United Nations Inter-Agency Taskforce on Sport for Development and Peace”), che riconosce nello sport uno strumento a basso costo e ad alto impatto nel supportare gli obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Goals) in tema di educazione, diffusione delle conoscenze su Hiv/Aids, promozione dell’uguaglianza di genere e dell’emancipazione femminile.

Che lo sport e l’attività fisica contribuiscano non solo a salute e benessere ma anche all’integrazione sociale, lo conferma un altro progetto della Uisp avviato nel 1997 e tuttora in corso. Si tratta dei “Mondiali antirazzisti”, una scommessa (vinta) per favorire l’integrazione dei migranti. Nato come costola del già consolidato progetto “Ultrà”, è diventato in breve una manifestazione in grado di richiamare da sola, ogni giorno, la partecipazione di oltre 7 mila persone con il coinvolgimento di 190 squadre di calcio, 24 di basket, 20 di pallavolo, 6 di rugby e 3 di cricket.

L’idea è molto semplice: organizzare una manifestazione capace di riunire i gruppi di tifosi ultrà, spesso etichettati come razzisti, e le comunità di migranti. Se nel 1997 hanno partecipato 80 persone da 4 Paesi, negli ultimi anni la compagine si è fatta via via più nutrita. Nel 2005 si sono aggiunti indiani, pakistani e bengalesi per dar vita a un torneo di cricket. Il 2006 è stato l’anno di una squadra mediorientale mista, composta da ebrei e musulmani. Nel 2007 sono state rappresentate ben 40 nazioni, con quasi la metà delle squadre formata da persone di diverse origini e culture. E nel 2011, per la prima volta, è stata presente una delegazione dell’Ucraina e un gruppo di bambini Rom provenienti dalla Romania.

L’esperienza veneta
A livello locale, infine, il programma “MuoverSì” in Veneto è stata la culla di tante iniziative di promozione dell’esercizio fisico destinate a gruppi di stranieri. «Dal 2001 è stata inaugurata una collaborazione con la scuola per incentivare il movimento e la sana alimentazione che ha visto la realizzazione di materiali promozionali multilingue, iniziative di formazione per gli insegnanti e incontri con persone di diverse etnie», racconta Susanna Morgante, responsabile del progetto. In questa cornice, nel dicembre 2013 ha visto la luce Muovimondo, un manuale di didattica interculturale sugli stili di vita per le scuole primarie e secondarie, scritto dagli insegnanti e rivolto alle classi dove è forte la presenza di bambini non italiani. «Ora stiamo lavorando per disseminare questi contenuti nelle diverse comunità. Abbiamo iniziato una serie di focus group con stranieri adulti, per capire ad esempio cosa ne pensano le famiglie dell’idea di mandare i bambini a scuola da soli. Sono emersi alcuni punti critici, che andranno affrontati nei modi più opportuni», sottolinea Morgante. Le famiglie si ritrovano improvvisamente in un contesto che scoraggia sia l’abitudine di muoversi da soli a piedi sia l’autonomia stessa del bambino, in un clima di generale iperprotettività nei confronti dell’infanzia. Spesso mandare il bambino a scuola da solo viene percepito dagli altri genitori come segno di scarsa cura genitoriale, fino a situazioni limite che portano a segnalazioni da parte di insegnanti e dirigenti scolastici preoccupati di proprie responsabilità legali.

 

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