Lavoro e attività fisica: alla ricerca di un nuovo modello di welfare aziendale

Negli ultimi cinquant’anni l’innovazione tecnologica e i progressivi cambiamenti socioculturali hanno reso il lavoro meno pesante, ma più sedentario e ripetitivo. Ogni giorno passiamo 7- 8 ore fermi e seduti alla scrivania, mettendo a rischio la salute. Quando invece proprio l’ufficio può diventare un ambiente privilegiato dove promuovere stili di vita attivi. A partire da una riflessione su modelli e pratiche efficaci, tra studi e progetti già avviati, azioni quotidiane propone un percorso per agevolare l’esercizio fisico anche davanti al pc o in pausa pranzo.
21/05/2014
  • Alberto Baldasseroni, Stefano Menna
l'esercizio fisico nei luoghi di lavoro

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Nell’Inghilterra vittoriana, agli impiegati era consentito stare alla scrivania sia in piedi sia seduti

Il lavoro (quando c’è) nobilita l’uomo e, a volte, anche la sua salute. Sì, perché sul posto di lavoro - ambiente spesso associato all’immagine di giornate intere passate seduti alla scrivania o davanti al pc - è possibile “guadagnare salute”, favorendo il movimento e l’adozione di comportamenti sani. Lo dimostrano, pur con qualche fatica, le iniziative e le esperienze che fanno del benessere e di uno stile di vita attivo i principi guida del welfare occupazionale. Si tratta della cosiddetta workplace health promotion: una nuova filosofia di promozione della salute che vede negli uffici il setting privilegiato di intervento. Sia perché frequentati dall’adulto sano che può “sfuggire” al medico di base, sia perché le persone bene o male trascorrono qui la maggior parte della propria giornata.

Solo per fare un esempio, è di appena qualche settimana fa la proposta del ministro dei trasporti transalpino Frédéric Cuvillier di creare un fondo per incentivare l’utilizzo delle due ruote per andare a lavorare. Tra le 25 misure proposte da Cuvillier per lo sviluppo di una strategia nazionale per la mobilità sostenibile, infatti, la più eclatante è il riconoscimento di un indennizzo economico per ciascun chilometro percorso a quei lavoratori che, abbandonando l’auto, scelgano di andare in ufficio in bicicletta. Un’idea che punta forte sul vantaggio della convenienza economica: esistono tentativi simili già realizzati in Olanda e Belgio, ma lanciati da singole aziende e non da un governo. Nei prossimi mesi, in Francia partirà una sperimentazione per vagliare la sostenibilità della proposta che, nel peggiore degli scenari, peserebbe sulle casse di Parigi per circa 110 milioni di euro. Una spesa che sarebbe in parte compensata dalla riduzione dei costi sanitari per malattie legate alla sedentarietà, con un risparmio pari a 35 milioni di euro.

Ci sono ormai tanti progetti come quello francese. Di più: spesso le imprese che offrono incentivi sul fronte benessere e salute non si limitano a dare informazioni sull’importanza di adottare stili di vita attivi, ma offrono opportunità concrete per metterli in atto. Prima di esaminare queste esperienze e le azioni più efficaci, però, è bene fare un passo indietro per delimitare e definire l’ambito di cui stiamo parlando.

Due facce della stessa medaglia
Promozione dell’attività fisica o lotta alla sedentarietà? Fino a poco tempo fa considerati quasi sinonimi, in realtà sono oggi visti come due corni dello stesso problema, da tenere distinti. È infatti chiaro che l’esercizio fisico si può favorire solo se insieme si intraprendono azioni di contrasto alla sedentarietà. Ma è anche vero che gli effetti negativi per la salute della sedentarietà non possono essere limitati a quelli di una scarsa attività fisica. Per esempio: nel corso delle sue mansioni, una casalinga non fa propriamente attività fisica; però le sue attività domestiche la portano a non stare mai ferma. Di contro, un impiegato può fare 3 ore intense a settimana in palestra, ma poi è costretto a stare 7-8 ore al giorno seduto alla scrivania.

A partire dalla metà degli anni 2000 la ricerca in sanità pubblica e la medicina del lavoro hanno così iniziato a separare i due fronti. Nella convinzione (ovviamente suffragata dai dati) che, per gruppi di popolazione con abitudini differenti, anche le azioni di sanità pubblica debbano essere diverse.

Sedentarietà vs. attività fisica
Se infatti la sedentarietà non è solo mancanza di una “dose” adeguata di attività fisica, ma un autonomo fattore di rischio di per sé, un obiettivo di salute può essere quello di interrompere con pause frequenti la posizione seduta, indipendentemente da qualità e quantità dell’esercizio. Insieme all’ambiente casalingo, allora, i luoghi di lavoro diventano uno dei setting chiave su cui fare leva. Perché negli ultimi cinquant’anni la progressiva trasformazione del lavoro - sempre più orientato ai servizi e meno al manifatturiero - ha reso le modalità e le prestazioni d’opera via via meno pesanti, ma più sedentarie e ripetitive.

Come ormai parecchi anni fa la Legge 626 ha sancito che stare di fronte a un videoterminale per 8 ore continuative fa male (servono quindi delle pause per consentire il riposo della vista e un minimo di “sgranchimento”), così oggi avremmo bisogno di un’analoga rivoluzione normativa per contrastare la posizione seduta, sul fronte posturale. In mancanza della quale le nostre imprese, “dal basso”, stanno facendo ancora troppo poco. Non così in Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna dove sono in corso sperimentazioni interessanti: per esempio, uffici e stazioni lavorative (come quelle del cassiere al supermercato) organizzate in modo verticale, per far sì che il lavoratore possa operare anche in piedi.

Linee guida e (buone) azioni raccomandate
Mentre sulla lotta alla sedentarietà le conoscenze non sono ancora sufficienti per formulare raccomandazioni che non siano genericamente volte a diminuire il tempo che si passa seduti, più articolato è il panorama delle prove di efficacia disponibili per la promozione della “dose” di attività fisica in grado di apportare benefici alla salute. Su questo versante le raccomandazioni si spingono in dettagli anche molto sottili, rispetto a tecniche e atteggiamenti da assumere per consentire l’adozione di comportamenti virtuosi. E gli esempi qui sono più numerosi, stavolta anche in Italia. Nel 2011 il Sistema nazionale linee guida (Snlg) ha pubblicato “Lotta alla sedentarietà e promozione dell’attività fisica”: frutto di un’analisi della letteratura disponibile sull’efficacia degli interventi per la promozione dell’attività fisica, il documento fornisce una serie di raccomandazioni al mondo delle imprese, dei sindacati e dei lavoratori. Vediamone alcune.

Un programma aziendale che incoraggi i lavoratori a essere fisicamente attivi dovrebbe prevedere politiche flessibili per sollecitare i lavoratori a camminare, andare in bicicletta e utilizzare altre modalità di trasporto che prevedano di fare esercizio fisico (per esempio, includendo all’interno dell’orario di lavoro il tempo necessario per il trasferimento al lavoro a piedi o in bicicletta). Non solo: creare gruppi di cammino, mettere a disposizione dei dipendenti servizi di ristorazione e mensa basati su un’alimentazione sana, liberare gli ambienti di lavoro da alcol e fumo, estendere tutti questi benefit alla famiglia del lavoratore.

E poi muoversi di più sul posto di lavoro stesso: camminare per andare alle riunioni, mettere in bella vista segnali e cartelli per incoraggiare l’uso delle scale anziché dell’ascensore, fornire informazioni sulle piste ciclabili e i tragitti percorribili a piedi nei dintorni dell’ufficio, incoraggiare i lavoratori a fare brevi passeggiate durante le pause, fissare (e monitorare) obiettivi aziendali da raggiungere in termini di distanze da percorrere a piedi o in bici. Infine, i datori di lavoro dovrebbero assicurare ai dipendenti l’accesso a palestre o strutture sportive (stipulando convenzioni con gli impianti vicini o addirittura ospitando le attrezzature nei propri edifici), garantendo la presenza di docce e rastrelliere per le biciclette per coloro che vogliono che l’attività fisica entri a far parte realmente della loro vita lavorativa quotidiana.

La molla economica: Europa e Usa a confronto
Certo, se guardiamo alla dura realtà dell’attuale situazione occupazionale in Europa e in Italia, si rischia di dipingere un quadro ideale, da libro dei sogni o quasi. Eppure negli Stati Uniti queste misure a sostegno del benessere dei lavoratori contraddistinguono ormai da anni le scelte della maggior parte delle aziende private, in particolare delle big corporation. Di più, creano business e valore di impresa. Del resto, gli interessi economici e il modello di welfare in gioco sono molto diversi da quelli che caratterizzano il mondo e il mercato del lavoro europeo. Alle imprese conviene investire sul benessere dei propri dipendenti, perché in un sistema come quello americano la tutela della salute ricade in gran parte sulle spalle dei privati ed è interesse delle imprese farsene carico. Se l’azienda incentiva politiche che favoriscono e promuovono attività fisica e salute, molto probabilmente i dipendenti si ammaleranno meno: e così le compagnie assicurative riconosceranno un premio più basso per le polizze stipulate.

Non così nel vecchio continente, dove è lo Stato (non l’azienda) il paracadute sociosanitario dei cittadini. Il welfare europeo ha infatti il grande merito di non discriminare sulla base delle condizioni di salute il “premio” assicurativo, consentendo anche a chi non gode di buona salute di accedere ai servizi sanitari senza essere penalizzato da costi eccessivi. È un sistema egualitario: tende a non penalizzare chi parte svantaggiato, al contrario di quello statunitense che contiene in sé qualche reminiscenza di darwinismo sociale.

Lo svantaggio, in questo caso, è che i modelli europei - universalistici e per lo più pubblici - tendono a “frenare” la motivazione dei privati a occuparsi della promozione della salute dei lavoratori. È per questo che in Europa i programmi di workplace health promotion sono relativamente giovani e incontrano ancora così tante resistenze. Molte esperienze, nate per iniziativa di qualche imprenditore illuminato, sono nate più che altro in seno ad attività di responsabilità sociale di impresa. Dove però l’obiettivo non è il ritorno (economico) dell’investimento, ma il miglioramento della propria immagine, del clima sociale e collaborativo con i dipendenti.

Quale modello per un mercato in trasformazione?
Infine, ad aggiungere un ulteriore elemento di criticità nella costruzione di un nuovo modello di welfare aziendale c’è l’attuale crisi del mercato del lavoro. Il rapporto tra datore di lavoro e dipendente, un tempo regolato quasi esclusivamente dal contratto a tempo indeterminato, si è oggi frantumato in tanti rivoli con l’esplosione di flessibilità, precarietà e libera professione. I programmi di welfare aziendale che promuovono la salute dei lavoratori (e raccomandati sulla base dell’evidence) sono pensati e strutturati per un tessuto e un mercato del lavoro sì dinamico, ma dotato anche di robuste reti di protezione sociale. È sempre il caso degli Usa, dove il “posto fisso” non esiste ma gli accordi contrattuali definiscono una serie di diritti inalienabili, tra cui appunto quello che tutela il benessere del lavoratore.

Per i nostri “atipici”, al contrario, il modello di welfare appare oggi molto fragile: sono più soli, in balìa esclusivamente delle proprie possibilità, laddove lo Stato non può arrivare. Privare i lavoratori di queste opportunità e benefici è uno dei (tanti) effetti collaterali della progressiva dissoluzione del mercato di lavoro, in corso ormai da diversi anni.

 

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