Come fu che Los Angeles perse i suoi tram

Negli anni '30 la grande città americana poteva contare su 2.500 chilometri di rete tramviaria, la più estesa ed efficiente dell'epoca. Poi qualcuno decise di fare posto ad autobus e macchine private.
30/05/2013
  • Eva Benelli
frame del film "Chi ha incastrato Roger Rabbit?"

«Andare in città in auto? Che stupidata! Perché, se puoi prendere il tram?». È la battuta, fulminante, del detective dell’indimenticabile Chi ha incastrato Roger Rabbit? sulle tracce dei loschi figuri che complottano di far sparire la deliziosa cartoonia per fare spazio a una rete di strade superveloci. Nel film il complotto viene sventato e il cattivo (un cartone!) ha la fine che si merita.

Sappiamo che non è andata così. Negli anni ’30 del secolo scorso Los Angeles era una delle città più popolate degli Stati Uniti e si stendeva su una superficie molto ampia, forse la più ampia al mondo in quel momento. Tutte queste persone, per i propri spostamenti potevano contare su una efficientissima rete tramviaria estesa per ben 2.500 chilometri. Gli abitanti di cinquanta diverse comunità urbane raggruppate in quattro contee per lo più si servivano dei Red Cars che sfrecciavano a 90 chilometri all’ora per gli spostamenti periferici e dei Yellow Cars per le zone del centro. Si trattava del più esteso e ramificato sistema di trasporti pubblici urbani dell’epoca. Cinquant’anni più tardi Los Angeles si era trasformata in una città dal traffico caotico e congestionato e in una delle metropoli più inquinate del pianeta.

Interessi economici e assenza di pianificazione
A imporre una netta accelerazione verso un modello di viabilità centrato sul traffico privato e il predominio dell’automobile la scelta deliberata di quattro big economici: la General Motors, la Firestone, la Standard Oil e la Mack Truck. Autoveicoli, gomme e carburanti, insieme, acquistano le reti tramviarie e le sostituiscono con autobus su gomma, poi diventa necessario ampliare le strade, renderle sempre più veloci e mano a mano che il numero di automobili private aumenta, le corse sui mezzi pubblici diventano sempre meno competitive (l’ultima corsa in tram è del 1961), il vecchio tessuto urbano viene distrutto e Los Angeles si estende ancora di più.  Un modello che si replica negli anni successivi in tutte le grandi città americane sostenuto anche da una serie di altri fattori: politici (perché tutti i governi sostengono l’industria automobilistica e il suo indotto), culturali e organizzativi (perché manca una pianificazione urbana adeguata) e perfino militari (in piena Guerra Fredda c’è l’idea che evitare di concentrare le persone le protegga meglio dal rischio di attacco nucleare). Lo stesso percorso lo imboccano (magari con sfumature diverse) tutte le grandi città del mondo.

Capovolgere l’approccio
Tutto questo e anche di più lo racconta un bel libro non (ancora?) tradotto in italiano: Straphanger: saving our cities and ourselves from the automobile (Times Book, New York, 336 pagine, 25 dollari). L’autore, Taras Grescoe, ha una tesi: che il modello di sviluppo urbano dominato dall’automobile ha gravemente danneggiato non solo la nostra salute ma anche le nostre strutture sociali e perfino economiche. Ma è anche convinto che l’egemonia dell’auto sia ormai al tramonto. E lo sostiene con una serie di esempi che riguardano grandi città da un capo all'altro del pianeta (ogni capitolo una città, introdotta dalla mappa dei suoi mezzi pubblici). Al declino dell’automobile contribuiscono non solo la minaccia dell’esaurimento dei combustibili fossili e la crisi che aiuta a far comprendere che dell’auto si può anche fare a meno, ma anche la crescente consapevolezza della minaccia alla salute dell’inquinamento  e della sedentarietà.

Occorre, però, ci ricorda Grescoe, capovolgere l’approccio: per esempio progettare le piste ciclabili non dove è comodo realizzarle, ma dove servono (per andare in centro), e, soprattutto occorre un coordinamento generale e pubblico per riuscire a ripensare la struttura urbana in termini di accessibilità e trasporti pubblici. L’autore non trascura nemmeno l’impatto sociale di questa ri-qualificazione urbana: vivere più vicini ai mezzi pubblici, sostiene, significa anche vivere più vicini tra noi e imparare a capirsi meglio.

Chi sa se conosce la carta di Toronto? Ma anche se così non fosse questa convergenza di visione indica che i tempi sono maturi per un cambio di paradigma.

A proposito: “straphangers” (cui si riferisce il titolo) sono le persone che si appendono alle maniglie sui mezzi pubblici.

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