Pubblicità e salute, un rapporto complesso

A partire dalla messa al bando di uno spot per la tutela dei ciclisti, una riflessione sul ruolo dei messaggi pubblicitari.
19/03/2014
  • Debora Serra
pubblicità e salute

È possibile che una pubblicità sulla promozione dell’attività fisica pensata per lanciare una politica dei trasporti più sostenibile venga messo al bando? Pare proprio di sì, se guardiamo a quel che è successo recentemente in Scozia, dove l’authority nazionale per la regolamentazione della pubblicità ha ritirato lo spot “See cyclist, think horse”, realizzato dall’associazione Cycling Scotland. L’obiettivo principale della clip era promuovere la sicurezza dei ciclisti e aumentare l’attenzione degli automobilisti nei confronti delle due ruote.

 

L’accusa principale - veicolare un messaggio sbagliato, ovvero usare la bicicletta senza casco e pedalare in mezzo alla carreggiata - si inserisce in realtà in un discorso più ampio e in un dibattito che sta attraversando da mesi la Gran Bretagna.

Una polemica che parte da lontano
Era infatti il novembre del 2013 quando, sulle principali testate giornalistiche inglesi, venivano lanciate le prime accuse contro il sindaco londinese Boris Jonhson, colpevole di (presunta) scarsa attenzione nei confronti della sicurezza dei ciclisti che sempre più popolano la capitale britannica. Dibattito che di lì a poco ha assunto toni apocalittici, addirittura con il paragone tra le strade della City e il campo di battaglia afghano. «Cos’è più pericoloso: essere un ciclista che pedala a Londra o un militare di stanza in Afghanistan?» è la domanda provocatoria che apre un editoriale del London Evening Standard, a firma di Nick Curtis, per parlare dei 14 ciclisti deceduti a Londra nel 2013 (sono invece 8 i soldati della corona morti sul fronte afghano nello stesso periodo).

Gli animi erano già surriscaldati quando lo scorso gennaio è andato in onda lo spot scozzese. Per cui era abbastanza prevedibile che la Advertising Standards Authority (Asa) ricevesse numerosi reclami sull’irresponsabilità e la dannosità della campagna, nonostante in Scozia non sia obbligatorio per chi va in bici indossare il casco. Parecchie organizzazioni di ciclisti sono insorte contro il bando. Martin Key, capo progetto dell’associazione British Cycling, ha affermato che «la decisione dell’Asa va contro gli sforzi per promuovere l’uso della bicicletta come principale mezzo di trasporto quotidiano. Inoltre imporre l’uso dei caschi protettivi non incoraggia il principio di mutuo rispetto tra chi si trova in strada».

Il messaggio salutare prima di tutto
Anche Teresa Burzigotti, esperta in coaching e comunicazione, ritiene che sia una lettura troppo restrittiva che finisce solo per ostacolare la promozione dell’attività motoria. «È grave che nel finale dello spot, con la ragazza che pedala in una situazione reale, venga omesso l’uso del casco, perché la pubblicità fa cultura ed educa, in particolar modo quella che si occupa di temi sociali e di bene comune. Le campagne, quindi, dovrebbero essere consapevolmente costruite per mandare messaggi univoci e inequivocabili». Tuttavia sottolinea anche come sia un peccato che lo spot sia stato bandito, dato che la sua forza era proprio quella di «comunicare un obiettivo positivo attraverso una metafora divertente, piuttosto che con la proibizione o il ricorso a scenari drammatici».

Dal punto di vista dell’efficacia dei messaggi pubblicitari, è interessante analizzare anche la recente serie di video dal titolo “Fat girl dancing”, parte della campagna “No body shame” lanciata dalla speaker radiofonica americana Whitney Thore dopo aver scoperto di soffrire della sindrome dell'ovaio policistico, una malattia che può provocare un significativo aumento di peso. La campagna è costruita con l’intento di aiutare le donne ad amare sé stesse, qualsiasi sia il proprio aspetto fisico.

 

Whitney Thore si esibisce in numerose coreografie e, nonostante un evidente sovrappeso, sfrutta le sue abilità di ballerina invitando gli spettatori a dimostrarsi altrettanto agili. Burzigotti ricorda ancora come la questione del peso corporeo sia un tema delicato e non riguardi solo l’accettazione della propria immagine come risultato degli effetti di una patologia. Esistono infatti diversi livelli di lettura del video. «Il primo, e più interessante, è che il peso corporeo di Whitney sembra la conseguenza di una malattia. Danzare dunque è non solo la rivincita sui pregiudizi estetici ma anche e soprattutto sulla malattia. Letto in questo senso il messaggio è più forte. Tuttavia esistono situazioni complicate come quelle legate ai disturbi alimentari (per esempio, la bulimia nervosa), in cui il messaggio può arrivare in modo distorto».

Mai generalizzare sui temi sensibili, anche se…
È interessante anche una riflessione sulla diversa immagine che uomini e donne dello spettacolo possono dare di sé. «Negli anni abbiamo visto danzare numerosi rapper grassi - Notorious Big, Big Pun, Fat Joe, Rick Ross e Heavy D - con grande energia e consapevolezza, mentre sappiamo che per le donne è più complicato. In generale, infatti, è difficile per una donna sovrappeso realizzare obiettivi in alcuni contesti professionali come tv, cinema, musica, moda, vendita, e in tutti gli ambiti in cui l’immagine gioca un ruolo chiave», continua Burzigotti.

Dobbiamo infine tenere a mente che il peso corporeo ha a che fare anche e soprattutto con aspetti nutrizionali e che «oggi le istituzioni sanitarie promuovono stili di vita sani in cui l’alimentazione è nel mirino. Per quanto infatti l’esercizio fisico aiuti a mantenere forma e salute, un’alimentazione sana e corretta è pur sempre alla base di tutto», conclude Burzigotti.

Il caso Philip Morris
Esistono poi esempi contrari, con iniziative pubblicitarie che promuovono esplicitamente stili di vita a rischio, puntando su un’immagine forte e vincente che si vorrebbe dare di sé stessi. Tra queste, il caso più recente coinvolge il colosso statunitense Philip Morris International e la campagna “Don’t be a maybe, be Marlboro”. Un rapporto pubblicato il 12 marzo da numerose associazioni di promozione della salute, tra cui la Campaign for Tobacco Free Kids, accusa la multinazionale del tabacco di utilizzare temi e immagini rivolti esplicitamente ai ragazzi con l’obiettivo di favorire l’iniziazione al fumo. La campagna, lanciata in 50 Paesi di tutto il mondo, prevede pubblicità sui cartelloni stradali, manifesti alle fermate degli autobus, oltre a strategie di marketing non convenzionale come la promozione di tour nelle spiagge nordafricane e sudamericane, la sponsorizzazione di concerti e l’ideazione di feste a tema. Philip Morris punta a mettere in relazione le sigarette a marchio Marlboro con i concetti di avventura, scoperta, libertà e sfida all’autorità. Le immagini scelte mostrano infatti alcuni momenti di vita adolescenziale tra feste, primi amori, musica e sport praticati dai giovani come snowboard e surf. Casi come questo, quindi, valgono bene l’immediata messa al bando della campagna, proprio come hanno stabilito lo scorso autunno le autorità di governo della Germania.

 

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