Problemi a cuore e reni? Più esercizio fisico, ma attenzione agli eccessi
- redazione
Lunga vita a chi corre. Qualsiasi runner è disposto a sudare e soffrire per assicurarsi un futuro longevo e in buona salute. Ma che rapporto c’è tra quantità e modalità del correre e impatto sulla sopravvivenza? A fare un po’ di chiarezza ci prova il Journal of the American College of Cardiology, con i risultati di uno studio condotto su oltre 55 mila adulti, il 24% dei quali dediti al podismo nel tempo libero. Nel corso di un lungo periodo di osservazione (15 anni), si sono verificati circa 1.200 decessi per problemi cardiovascolari e altri 3.400 per altre cause. In chi corre la probabilità di morte è significativamente minore (del 45% per cause specifiche e del 30% in generale), che si traduce in un guadagno medio di ben 3 anni di vita. I ricercatori hanno costruito interessanti equivalenze tra misure di tempo, spazio ed energia: in particolare pare che, per ottenere una riduzione del rischio di mortalità, sia sufficiente correre ogni settimana almeno 51 minuti o per 9-10 chilometri. Oppure una o due volte, in modo da bruciare almeno 500 Met. O, ancora, procedendo alla velocità di circa 9-10 km/h.
Cuore malato: parola d’ordine “moderazione”
Le cose sono un po’ diverse per chi ha già il cuore malato: carichi medio-bassi di attività fisica evitano parecchi eventi fatali ai cardiopatici, mentre l’esercizio ad alta intensità annulla il beneficio. Anzi, se spinto agli estremi, può addirittura aumentare il rischio. Queste le conclusioni, pubblicate sui Mayo Clinic Proceedings, di due studiosi statunitensi che hanno messo in relazione i tassi di mortalità e l’energia spesa nella corsa o nel cammino (misurata in termini di Met all’ora; correndo per un chilometro si brucia l’equivalente di 1 Met all’ora) da parte di quasi 2.400 sopravvissuti a un evento cardiaco acuto.
Dopo un periodo di osservazione di circa 10 anni si sono verificati 526 decessi, 376 dei quali (il 72%) per cause cardiache. Rispetto ai sedentari, quelli più attivi che spendono 1-1,8 Met all’ora (in ossequio alle raccomandazioni del ministero della Salute statunitense e di società scientifiche come l’American College of Sports Medicine o l’American Heart Association) possono sperare in una riduzione della mortalità di poco superiore al 20%. Quelli che bruciano con l’esercizio 3,6-5,4 Met all’ora, nel suo dimezzamento. Con un’intensità di oltre 7 Met all’ora, il calo della mortalità risulta invece ridimensionato a un modesto 12%. Questa quota, che corrisponde a circa 7 chilometri di corsa o a 10 chilometri di camminata a passo veloce al giorno, rappresenta la soglia al di sotto della quale il movimento risulta sicuramente protettivo, con una riduzione media del rischio di mortalità cardiovascolare del 15%. Superata questa soglia, al contrario, il rischio sale di oltre due volte e mezza. Le cause? Soprattutto eventi ischemici o aritmie fatali. Va sottolineato che con il crescere dell’intensità dell’esercizio si riduce progressivamente l’età media dei praticanti (da circa 67 anni a poco più di 50 anni): questo però non è sufficiente a controbilanciare la scelta inappropriata di carichi troppo elevati.
Movimento per chi soffre di reni, anche a casa
Resta invece più incerto, secondo una ricerca pubblicata sull’American Journal of Kidney Disease, l’effetto dell’attività fisica in presenza di insufficienza renale cronica. Due ricercatori svedesi hanno proposto una metanalisi sulla base di studi clinici controllati e randomizzati che avevano coinvolto pazienti con tutti i gradi di insufficienza renale, fino alla dialisi e al trapianto. In molti si sono interessati al problema (gli studi pubblicati sono una quarantina) ma le casistiche raccolte sono piuttosto ridotte: il numero complessivo dei pazienti coinvolti supera di poco 900, con una grande dispersione delle tipologie di intervento e un’attenzione prevalente al sottogruppo dei pazienti già in dialisi. Il che non consente di trarre conclusioni sul ruolo dell’attività fisica per la prevenzione o il contenimento delle complicanze associate alla nefropatia.
Superati questi limiti metodologici, gli autori sono comunque riusciti a individuare un’associazione confortante: in effetti c’è un beneficio per la salute e il benessere dei pazienti nefropatici che praticano regolarmente attività fisica. Gli autori propongono quindi di introdurre programmi mirati e con esiti misurabili nel lungo termine. Suggeriscono inoltre che in questa condizione - già così medicalizzata (si pensi al ritmo della dialisi) e con un impatto pesante sulla qualità della vita - potrebbe essere utile prevedere anche sessioni di attività fisica a domicilio.
Aggiungi un commento